Avevo incontrato Luana (si tratta ovviamente di un nome fittizio che serve a
mantenere l’anonimato della persona reale) in Consultorio in quanto inviata dai
Servizi Sociali che se ne occupavano da diversi anni, in seguito all’abbandono
scolastico che aveva messo in atto durante la scuola media inferiore per una
precaria condizione di adattamento con gli insegnati e con i compagni di classe.
Luana si chiudeva a riccio e non voleva saperne nè delle lezioni, che non seguiva,
nè di mantenere un buon rapporto con i suoi coetanei, che ignorava. La sua si
poteva definire una risposta autistica che la manteneva completamente isolata da
tutto ciò che accadeva attorno a lei.
Da allora viveva in casa in modo molto ritirato e le sue uscite erano scarse e
sempre fonte di ansia, sentendosi sempre esposta agli sguardi e al giudizio
sommario degli altri. In casa viveva con i genitori e i due fratelli con i quali
condivideva i pochi rapporti sociali. Ragazza mingherlina, dalle fattezze delicate e
di aspetto fragile, m’aveva colpito per la diffidenza che mostrava verso gli adulti,
senza mai essere in grado di stabilire un rapporto di fiduciosa aspettativa. Mi
ispirava un sentimento di tenerezza e la voglia di andare oltre per capire cosa
avesse interrotto la sua legittima evoluzione verso una forma adulta d’essere. Si
presentava come una bambina in cerca di protezione, ma non potendo contare
sull’intimità con gli altri rimaneva incastrata in una situazione senza via d’uscita e
senza speranza. Date queste premesse dobbiamo considerare che in questo
stato il lavoro iniziale era poter far nascere un rapporto di fiducia che richiese
moltissimo tempo perchè possesse stabilirsi. Non era affatto necessario con
questa paziente forzare la descrizione dei fatti per cercare di capire cosa fosse
avvenuto nella sua vita, ma si trattava di rispettarne i tempi, quando poteva sentire
di essere pronta e solo quando stabiliva che era il momento di farlo, quando
poteva sentire che ero lì per accoglierla e condividere il suo disagio.
Luana si sedeva e la sua postura era di per sé significativa per farmi comprendere
il suo stato. Piegava la schiena in giù e parlava eslusivamente rispondendo alle
domande che si sentiva rivolgere, non aggiungendo nulla e rimanendo
estremamente elusiva, volutamente superficiale su quello che mi descriveva,
senza mai guardarmi in faccia o facendolo di sfuggita come intimorita. La sua
famiglia s’era trasferita qualche anno prima dall’Italia del sud per congiungersi con
dei parenti che già da qualche anno abitavano in quest’area e insieme ai quali
componevano un nucleo allargato. Per motivi di lavoro delle due famiglie, i figli
venivano durante il giorno affidati ad un cugino anziano già in pensione il quale
poteva occuparsene riunendo i bambini in un’unica casa.
Solo dopo molto tempo Luana fu in grado di confidarmi che all’età di 9 anni il
parente a cui erano affidati aveva abusato della cuginetta facendosi praticare una
fellatio, mentre a lei era capitato che strusciasse su di lei il membro eretto dentro i
suoi calzoni. Esse avevano mantenuto a lungo il “segreto” e solo dopo molto
tempo la cuginetta l’aveva potuto confidare ai propri genitori, i quali avevano fatto
scattare la denuncia per la quale il cugino era stato condannato in maniera
definitiva a qualche anno di carcere. Lei invece non aveva dichiarato nulla
negando qualsiasi suo convolgimento, non essendo certa che qualcosa fosse
capitata anche a lei, rimanendo indignata per la cuginetta ma escludendo che
potesse essere stata anche a lei vittima di violenza. Non si può affatto sostenere
che lei abbia patito un’abuso di maggior entità (se è lecito stabilire un tasso di
valore), anche se l’episodio che è riuscita a riferire è già di per sé grave, in quanto
effettuato dalla persona che avrebbe dovuto vigilare su di lei e sugli altri bambini
affidati, fornendo a loro la protezione di cui i bambini hanno bisogno per poter
sentire di crescere in un ambiente sicuro. In mancanza di altri elementi non si può
affatto sostenere che ci sia stato un abuso, tuttavia gli elementi comportamentali
che si possono osservare, la riluttanza della paziente a stabilire relazioni di fiducia
con gli adulti, il rimanere isolata in un contesto chiuso senza grandi contatti con i
suoi coetanei, la postura estremamente sofferente e di evidente imbarazzo verso
qualsiasi cosa che fosse riferito a se stessa, un sentimento di sé estremamente
svalutato, sono segnali impliciti di qualcosa che è avvenuto dentro di sé, a cui lei
ha risposto bloccando la sua stessa evoluzione. Non possiamo prendere una
decisione riguardo la verità storica senza avere delle verità storiche che
prescindono dalla ricostruzione della storia basata sulla memoria. Tuttavia non
possiamo escludere la possibilità che alcuni dei ricordi recuperati siano
effettivamente veri in termini di verità storica dell’abuso.
Condivido l’affermazione di Phil Mollon:
“Di fronte a un singolo paziente che sembra stia recuperando dei ricordi, in
assenza di ulteriori prove sufficienti, l’unico terreno di cui si può essere certi è
quello della propria incertezza. Questo deve essere il punto di partenza.”
Normalmente i ricordi di eventi terribili e traumatici vengono rimossi, per cui
l’interrogativo che ci si pone è che cosa si può fare per rimuovere la rimozione.
Non possiamo prendere una decisione riguardo la verità storica senza avere delle
verità storiche che prescindono dalla ricostruzione della storia basata sulla
memoria. Tuttavia non possiamo escludere la possibilità che alcuni dei ricordi
recuperati siano effettivamente veri in termini di verità storica dell’abuso. Se
consideriamo la rimozione non come la perdita di ricordi specifici, ma
l’allontanamento dalla consapevolezza conscia dell’evento specifico, ne
consegue che il recupero dell’evento non deve venire considerato “curativo” in sé
e per sé (catarsi) e che l’obiettivo terapeutico deve mirare a modificare il modo di
sentire o comprendere l’esperienza alla base del trauma.
La rimozione è un’ipotesi che per la sua natura è un fatto non dimostrabile che
deriva dall’osservazione che esiste la perdita della capacità di ricordare o di
riconoscere eventi passati, sia terribili che piacevoli o semplicemente neutri. Nel
caso delle “amnesie funzionali” (si tratta di amnesie che riguardano un singolo
evento e che possono improvvisamente dissolversi), quando si ha il recupero è
lecito il dubbio se si tratta del recupero genuino dell’evento passato, oppure di
un’acquisizione nuova, poiché il contenuto di una rimozione è per definizione
inconoscibile. Già nella relazione dello scorso anno avevo descritto le
conseguenze nel lungo periodo che subisce la bambina vittima di abuso
provocando in esse, quando diventano adulte, la difficoltà nell’integrare una
rappresentazione desiderante di sé stessa, che si accompagna all’incapacità di
vivere una vita sessuale soddisfacente e legittimamente appagante, oltre che a
compromettere l’identità di sé come donna e che si riflette anche sul piano della
riuscita in altri ambiti, in particolare in quello delle relazioni sociali, fino ad arrivare
anche ad una inibizione nelle proprie capacità di riuscire a realizzare le proprie
ambizioni e competenze e di goderne il merito. I sentimenti che caratterizzano lo
stato di fondo di queste persone sono quelli di inadeguatezza e di colpa, oltre che
ad un’ansia diffusa che devono affrontare nei contesti relazionali. Il caso descritto
presenta tutti questi aspetti, oltretutto come dato obiettivo abbiamo una condanna
del tribunale per gli abusi riconosciuti verso la cuginetta, tuttavia non ci è lecito
inferire se tutto ciò abbia riguardato anche Luana. Abbiamo però a che fare con i
sintomi impliciti del comportamento della paziente che ci suggeriscono che
qualcosa, a un certo punto della vita di Luana, debba essere avvenuto
compromettendo la sua evoluzione verso una forma adulta di sé, qualcosa che
deve aver avuto un effetto traumatico per produrre questo arresto. L’elaborazione
del trauma è altrettanto importante in queste situazioni. Nella scorsa relazione
rispetto ad un evento traumatico, come può essere l’abuso di un bambino,
c’eravamo chiesti quand’è che il trauma diventa tale. Riprendendo ciò che avevo
già sostenuto non è il fatto in sé che è traumatizzante, che già di per sé è
qualcosa di umiliante per chi lo subisce, ma che venga perpetrato da qualcuno
che vive nel proprio ambiente, in quel contesto che per il bambino ha un
significato di protezione, in cui è stato accudito e coloro che ci abitano hanno
assunto la funzione di garanti della sua crescita. Il trauma è rappresentato dalla
repentina sconferma di questo insieme così rassicurante per il bambino, la
disorganizzazione di un mondo attorno al quale è cresciuto il proprio sentimento
della coesione di sé, che irrimediabilmente va in frantumi e lui non sa come
opporsi alla distruzione della sicurezza su cui ha fondato il senso del suo essere
al mondo. Egli si trova a fronteggiare una situazione di marasma, dove nulla è più
sicuro, neppure il mantenimento di quelle figure sulle quali egli aveva eretto le sue
stesse certezze. E’ uno stato di improvvisa confusione, un caotico afflusso di
percezioni contrastanti e contradditorie, è la frammentazione della propria
rappresentazione del Sé, che il bambino non riesce più a mantenere in modo
coerente, è la capitolazione di ogni convincimento che porta all’annichilimento e
alla disintegrazione di ogni sua sicurezza. Nel caso degli “abusati” il trauma è
rappresentato dal fatto che quelle stesse figure sulle quali esse hanno riposto un
sentimento di fiduciosa aspettativa di sicurezza e di protezione ora le “tradiscono”,
le “violentano”, si comportano come se loro fossero degli oggetti da usare,
negando loro l’esistenza come persone individuate all’interno dello stesso mondo
che hanno contribuito a far crescere. Sono gli affetti negati verso la propria
persona che le annichilisce in quanto le annulla come individui e il loro trauma è
rappresentato dalla dolorosa sensazione di non contare più niente per quelle
stesse figure che avrebbero dovuto estendere su di esse il loro affetto amorevole.
Si capisce pertanto come il delicato lavoro che si è reso necessario con questa
persona è stato poter ricostruire un sentimento di fiducia che quella dolorosa
esperienza aveva ineluttabilmente compromesso. Qualche tempo dopo che
avevo iniziato a incontrare Luana l’assistente sociale del servizio che si occupava
della sua situazione e che regolarmente la vedeva per capire l’andamento e
offrirgli delle opportunità di formazione extrascolastiche, aveva richiesto un
incontro con me per discutere l’andamento del nostro lavoro comune. Ne avevo
prima parlato con Luana perché fosse un’iniziativa che anche lei condividesse e
datomi il consenso avevo accettato di incontrarla. Si tratta di una persona giovane
e che ha molto a cuore la vicenda della ragazza, con un atteggiamento che però,
involontariamente, è sconfermante della maturità di Luana. L’asimmetria è subito
evidente quando vedo che Luana le si rivolge dandogli del lei, mentre l’assistente
sociale le dà del tu, che può anche essere visto come un atteggiamento
confidenziale, ma che descrive una superficiale svalutazione della persona di cui
si occupa, “se tu hai bisogno allora il tuo valore degrada in relazione al fatto che
sono io ad occuparmi di te.” . Faccio presente che cronologicamente sia lei che
Luana sono molto vicine d’età e che se lei per il ruolo che riveste merita rispetto,
lo stesso rispetto lo dobbiamo a Luana e alle sue vicende. L’asimmetria della
situazione scava un solco che pone le due persone in una posizione non paritaria,
stabilendo un privilegio che non viene riconosciuto all’altra persona.
Indirettamente questo atteggiamento conferma i sentimenti svalutativi di chi già di
suo li alimenta in relazione al suo vissuto e alla colpa che si attribuisce.
Intimamente essa sente di non meritare il rispetto e la fiducia degli altri e quello
che si osserva è che si pone automaticamente in una posizione remissiva poiché
sente di non aver diritto a un sentimento di dignità. Essa vive la colpa come se
fosse stata lei a produrre quella occasione, come se lei stessa l’avesse innestata
o non fosse stata sufficientemente accorta da impedire che potesse accadere. La
condizione di ritiro sociale a cui si costringe rappresenta la punizione che
inconsciamente si infligge per non essersene opposta. Si sente immeritevole di
qualsiasi benevolenza, non merita nessuna considerazione e ciò che percepisce
negli altri è solo il biasimo per quello che è stato messo in atto. In chi subisce il
trauma vi è la necessità di reiterare infinitamente quella situazione, quasi che
magicamente egli possa dargli un altro verso, assumendo così una funzione attiva
che in maniera illusoria gli possa dare la sensazione che le cose non siano
accadute o che possa essere stato lui a farle accadere. Questo spiega il senso di
colpa che si può spesso cogliere nelle vittime di abuso. L’idea di essere stati i
fautori di quanto accaduto, assumendo così un ruolo attivo serve a contrastare la
ben più penosa idea di aver dovuto soccombere a chi, per il valore ideale che
aveva, ha potuto violentare il suo mondo psichico e scompaginarlo. Indirettamente
il rimprovero è rivolto anche verso i genitori dai quali non s’è sentita protetta e che
l’hanno affidata a chi non poteva meritare la loro fiducia. Come operatori bisogna
essere molto accorti a non cadere nel tranello in cui le stesse vittime di abuso ci
inducono, che non fa altro che rafforzare la poca considerazione in cui
rappresentano sé stesse. Sembra quasi che invece di identificarci alle loro
vicende ne ne prendano le distanze, poiché l’identificazione implica sentire dentro
di noi le vicende dell’altro come se ci appartenessero. Ci allontaniamo da esse
perchè ci fanno paura e nel farlo allontaniamo anche la persona che ne è stata
vittima, perchè ci conturba e ci fa provare il suo stesso disagio. Nel farcene carico
accettiamo che anche noi si possa vivere quell’esperienza e se ne possa avvertire
gli stessi effetti, la stessa perdita di sicurezza e la disintegrazione della nostra
persona, oltre che all’annullamento di ogni fiduciosa aspettativa verso il mondo
degli adulti. Provando sulla nostra stessa persona gli stessi sentimenti riusciamo a
capire cosa sia successo alla nostra paziente e quello che lei ha provato quando
la sua sicurezza è stata abusata.
Una difesa caratteristica delle vittime di abuso è la dissociazione psichica, che
comporta che gli eventi rimangano intatti ma che vengano scissi gli affetti che gli
sono collegati, per cui il ricordo di quanto accaduto rimane integro ma non è
associato ai sentimenti sollecitati da quella situazione. Come già vi dicevo la
dissociazione rappresenta una delle possibili risposte al trauma e la sua funzione
primaria è quella di fungere da risposta protettiva rispetto a un trauma
paralizzante. Non tutte le esperienze traumatiche vengono necessariamente
dissociate ed inoltre i ricordi dissociati non vengono persi dalla coscienza. Essi
permangono con la qualità di un ricordo intenso e a livello percettivo possono
innescare un “flashback” che per quanto vivido non giunge alla piena
consapevolezza di cosa l’abbia provocato. Nella maggior parte dei casi di
dissociazione, diversi schemi o rappresentazioni di sé devono essere mantenuti in
compartimenti mentali separati, poiché essi sono in conflitto l’uno con l’altro. I
ricordi dell’esperienza traumatizzante devono essere dissociati poiché non
possono coesistere nella loro vita quotidiana senza riproporre loro il sentimento di
impotenza che esse hanno vissuto durante quell’esperienza. E’ la brusca e
violenta perturbazione dell’ambiente a causare una situazione di shock, uno stato
di disorientamento e un vissuto di impotenza.
Per farvi comprendere meglio quello che avviene con la dissociazione, un’altra
paziente, quando aveva 12 – 13 anni, durante il riposo meridiano aveva subito
l’abuso da parte del padre e manteneva vivo il ricordo di quell’esperienza ma ad
essa non riusciva ad agganciare alcun sentimento che la riguardasse, come se lei
fosse stata esterna a quella situazione e non avesse riguardato sé stessa. I
sentimenti per questa figura erano rimasti inalterati nel corso del tempo, tuttavia i
loro effetti erano evidenti a distanza di quasi 40 anni da allora e non le
consentivano di stabilire legami affidabili con le figure maschili. Non
necessariamente un trauma ha un effetto patogeno. Il fattore decisivo nel
determinare lo sviluppo o meno di una patologia è rappresentato dallo stato di
tensione che consegue all’esperienza traumatica, e che riconosce importanza al
modo in cui viene soggettivamente elaborata la tensione provocata dalla
situazione traumatica. Come già sostenevo la risposta al trauma può consistere in
una soluzione disadattiva, ma non è l’unica possibile, considerando che la risposta
più adattiva è rappresentata dalla capacità di rimodulare l’esperienza e quindi
operare dentro di sé un’integrazione di essa, nella forma di un’accettazione che ne
riduca la colpa. Non è quindi pertinente sostenere che la dissociazione è una
risposta al trauma, poiché la risposta ad esso potrebbe anche essere di tipo
diverso.
Ora Luana ha 24 anni ma il tempo si è fermato a quel momento, la sua legittima
evoluzione si è arrestata e ciò che è più tormentoso è che nessun adulto ha preso
sul serio questi segnali, ritenendoli bizzarrie di una bambina disadattata e
incapace di stare al mondo. Attribuendo questi comportamenti a qualcosa che ci
risulta incomprensibile, non facendo attenzione al comportamento implicito che è
lì sotto ai nostri occhi continuiamo a negare l’esistenza dell’abuso, ci mettiamo
dalla parte dell’abusatore e, in un certo senso, ne prolunghiamo l’azione e col
nostro comportamento lo legittimiamo e confermiamo a Luana una colpa da cui
invece deve venire sollevata, affinché la sua evoluzione, dopo questa tragica
esperienza, possa riprendere il suo normale corso. Cosa dovrebbero fare
insegnanti ed educatori in una situazione come questa? Si potrebbe sostenere
che essi non abbiano una formazione specifica per affrontare al meglio casi di
questo genere, ma dobbiamo anche considerare il ruolo che essi hanno e che li
porta ad assumere un’importanza fondamentale nella crescita dei ragazzi, non
solo per le competenze che sono in grado di trasmettere , ma, in particolare, nel
loro valore di persone verso le quali i ragazzi sviluppano importanti identificazioni,
che sono quelle successive alle figure genitoriali e che accompagnano il giovane
verso il mondo degli adulti. Come fa il genitore a comprendere i bisogni del
bambino in un’età in cui il bambino non ha ancora sviluppato le capacità
comunicative necessarie ad esprimere ciò di cui sente il bisogno? Prendiamo la
madre, che nella nostra cultura è la figura che normalmente si occupa
dell’accudimento del piccolo. Essa ha innata la capacità di risuonare con il suo
bambino, che è una capacità empatica per cui rispecchia dentro di sé ciò che sta
sentendo il bambino, lo fa suo, lo riflette attraverso la sua capacità di
identificarsene, sente come sente il bambino ed è in grado di intervenire
all’occorrenza rispondendo prontamente ai bisogni del piccolo. Questa capacità
non è qualcosa che viene appresa, è qualcosa che abbiamo tutti e che utilizziamo
normalmente quando accettiamo di identificarci con chi ci sta davanti, purché si
accetti di far entrare l’altro dentro di noi. La modalità identificatoria prescinde dal
contesto in cui essa si svolge e richiede che ci sia una certa reciprocità fra le
persone che sono coinvolte in un rapporto in cui l’altro è inteso come un individuo
da comprendere e con cui mettersi nei panni secondo il modello
dell’identificazione.
Quando nell’esercizio delle proprie funzioni qualcuno cerchi di uscire
dall’atteggiamento impersonale del suo ruolo e cerca di essere una persona che si
sforza di ritrovare la persona negli altri, che fonda la propria identità su quello che
fa, scegliendo di rinunciare alla sicurezza del suo ruolo formale, egli adotta una
relazione che chiamiamo identificatoria, in cui lo scopo è quello di identificarsi
alle persone con cui stabilisce dei rapporti mettendosi nei loro panni, cercando di
comprendere il loro punto di vista e le loro esigenze senza imporre la propria
prospettiva. Ognuno è in grado di recuperare la propria disponibilità all’esperienza
identificatoria, in altri termini mediante la nostra capacità di provare empatia
riusciamo a rappresentarci le vicende dell’altra persona e a farle nostre come se
quelle stesse cose capitassero a noi mentre ci vengono descritte. Questa capacità
appartiene anche all’educatore e rappresenta quella risorsa che egli è in grado di
utilizzare per comprendere quello che sta provando la persona che gli è stata
affidata.